Apicoltura, parla uno degli autori della Carta di San Michele all’Adige

di Matteo Giusti –

Conservazione, miglioramento genetico, ambiente, reddito: intervista a Paolo Fontana sui punti principali e anche quelli più discussi del documento.

E’ stata firmata nei giorni scorsi la Carta di San Michele all’Adige, un documento scritto dai maggiori esponenti del mondo della ricerca e dell’apicoltura con lo scopo di lanciare un appello e delle proposte per la conservazione dell’Apis mellifera e delle sue sottospecie in Italia.

Come sottolinea Paolo Fontana, dottore di Ricerca in entomologia applicata, ricercatore della Fondazione Edmund Mach e apicoltore lui stesso, il primo obiettivo di questo documento, espressione della comunità scientifica italiana coinvolta nella ricerca sulle api e l’apicoltura, non è di fare delle proposte, ma di dare una visione chiara di un ben preciso problema.

Le api e gli insetti impollinatori in genere sono investiti da gravi minacce ambientali come le modificazioni del paesaggio e l’uso su larga scala di agrofarmaci in agricoltura.  Ma questo documento, pur non trascurando gli altri aspetti cruciali per la sopravvivenza delle api e dell’apicoltura, si concentra sul depauperamento del patrimonio genetico relativo alle sottospecie di Apis mellifera, cioè delle popolazioni naturalmente presenti in Italia e nelle altre aree dove la specie è presente.

Le sottospecie dell’ape da miele, spesso dette erroneamente razze, sono il modo in cui questa specie ad amplissima distribuzione (quasi tutta l’Europa, l’Africa il Medio Oriente e piccole zone dell’Asia Centrale) si è suddivisa adattandosi alle diverse situazioni geografiche e climatiche.

Un documento importante e interessante, anche perché è il primo che in maniera organica cerca di fare un punto sulla conservazione delle api mellifiche italiane, a partire dalla loro identità genetica.

Ben 28 studiosi hanno contribuito a stilare il documento. Sono rappresentanti di dieci università italiane, del Crea agricoltura e ambientee della Fondazione Edmund Mach. Oltre a questi ricercatori ci sono studiosi impegnati nella conservazione della biodiversità (World biodiversity association onlus) ed esperti di apicoltura. Molti degli estensori del documento sono poi essi stessi apicoltori, anche professionisti.

Ma è un documento anche contestato da una parte consistente degli apicoltori, tanto che le tre associazioni apistiche nazionali, Unaapi, Fai e Anai, non l’hanno condiviso, come hanno reso noto in un comunicato congiunto.

Per approfondire alcuni punti chiave, in particolare quelli più discussi, abbiamo intervistato Paolo Fontana, anche nella sua veste di promotore della Carta.

Dottor Fontana, la prima domanda quasi di rito è: da dove nasce questo documento e perché?
“Questo documento nasce soprattutto dalla mia partecipazione alCongresso internazionale di entomologia (Ice) tenutosi in Florida nel 2016. Una buona parte delle moltissime comunicazioni sulle api e l’apicoltura cui ho assistito, tenute dai maggiori esperti mondiali, parlavano didepauperamento genetico, di adattamento all’ambiente e delle gravi ripercussioni sulla salute e produttività delle api causate dalla riduzione della variabilità genetica di questa specie provocata da cause come l’avvento dell’acaro varroa ma anche dalla moltiplicazione smisurata di limitati patrimoni genetici derivanti da certe pratiche dell’apicoltura.

Approfondendo poi lo studio su questi temi, confrontandomi con gli studiosi italiani e attingendo alla mia oltre che trentennale esperienza di apicoltore, ho pensato che fosse importante fare chiarezza su questo tema. Dopo un primo incontro con alcuni ricercatori ed alcuni apicoltori, organizzato a Vicenza presso il locale museo, ho buttato giù una traccia, su cui poi hanno lavorato via via tutte le persone coinvolte nella stesura finale. Ognuno degli estensori ha contribuito in modo appassionato e originale anche se nonsempre è stato semplice trovare una visione condivisa sulla forma del testo. È stato facile invece concordare sui contenuti, derivanti dalla letteratura scientifica, ampiamente esposta nel documento, e dalle ricerche ed esperienze di ognuno”.

la Carta di San Michele si propone di tutelare l’Apis mellifera e in particolare le sottospecie italiane, messe a rischio non solo dalle malattie e dai parassiti, dai fitofarmaci e dalle alterazioni dell’ambiente, ma anche da una perdita di biodiversità, potremmo dire da una vera e propria erosione genetica o omologazione genetica. Ma quale è lo stato delle cose attualmente misurabile?
“In Italia sono presenti ben quattro sottospecie di Apis mellifera. Due di queste sono endemiche del nostro paese e cioè il loro areale di origine era limitato al nostro paese. L’Apis mellifera ligustica, detta appunto ape italiana e considerata la migliore ape per fare apicoltura e l’Apis mellifera siciliana, detta ape nera sicula. Ai confini con Francia, Svizzera e Austria erano poi presenti popolazioni di Apis mellifera mellifera più o meno incrociate con l’ape ligustica e ad Est, al confine con la Slovenia e l’Austria, popolazioni diApis mellifera carnica, anche queste più o meno incrociate con l’ape ligustica.

Questa era la distribuzione originaria, che è in parte mutata nell’ultimo secolo, con una accelerazione negli ultimi quaranta anni. L’ape nera sicula era quasi estinta, o meglio, il suo patrimonio genetico si era diluito notevolmente, a causa dell’introduzione in Sicilia dell’ape italiana. Grazie ad un piano di salvaguardia questa sottospecie è ancora minacciata ma è in buon recupero. Le popolazioni dei confini Nord occidentali sono state molto intaccate dalla introduzione in quelle aree di altre sottospecie di api ma restano ancora alcune aree dove sono presenti, in Liguria, Valle d’Aosta, Piemonte e forse in Lombardia. L’ape carnica è al contrario stata introdotta in molte aree italiane dove non era mai stata presente, mettendo, assieme agli incroci a più vie tra varie sottospecie di Apis mellifera anche africane e asiatiche, il patrimonio genetico dell’ape italiana e dell’ape nera sicula. Questi incroci non solo intaccano il patrimonio genetico delle api locali, ma non essendo stabili, sono poco vantaggiosi anche per gli apicoltori come dimostrato da diverse ricerche”.

Un concetto fondamentale alla base della Carta è che l’ape mellifica sia a tutti gli effetti un animale selvatico, allevato ma non domesticato, e per tanto strettamente legato al suo ambiente. Ma si può considerare questo insetto completamente selvatico, nel momento in cui abbiamo una forte selezione genetica artificiale o anche delle forme di allevamento che vanno a modificare la geometria dei favi e delle celle, strutture fisiche fondamentali del superorganismo alveare?
“Quando ho cominciato ad occuparmi di apicoltura a favo naturale, come con le arnie top bar, molti apicoltori mi chiedevano e mi chiedono ancora oggi: ma le api riescono a costruirsi il favo da sole? Un animale si dice domesticato se controlliamo il suo approvvigionamento di cibo e la sua riproduzione. Così dice più o meno l’enciclopedia Treccani alla voce ‘domesticazione’. Anche se sulle api viene praticata la inseminazione strumentale, se molti apicoltori e associazioni usano stazioni di fecondazione, noi non controlliamo lariproduzione dell’ape da miele. E per quanto riguarda l’alimentazione, se le api non raccogliessero la stragrande maggioranza del proprio cibo da sole, nell’ambiente, l’apicoltura non avrebbe senso. C’è poi chi dice che ormai la frittata è fatta e che non si torna indietro. La scienza ci dice invece il contrario. Le api come tante strutture biologiche sono resilienti. Se cioè sipone fine alle cause di perturbazione dell’equilibrio naturale, questo si ripristina dopo un certo tempo”.

Da un punto di vista biologico, una specie non è geneticamente invariabile, anzi, è sottoposta a una continua evoluzione, cosa si intende quindi in concreto con conservazione? O anche, che cosa si vuol conservare?
“Tutelare delle sottospecie è diverso che tutelare una razza di un animale domestico. La razza ha uno standard e l’allevatore opera per mantenere costante queste caratteristiche. Una sottospecie non ha uno standard ed è data dalle popolazioni che riescono a vivere e a prosperare entro una data area geografica. Una sottospecie è di per sé variabile e si produce in tanti ecotipi locali, legati a clima e vegetazione. Lo scambio genetico tra sottospecie e all’interno delle sottospecie tra ecotipi, permette l’adattamento continuo alle mutevoli condizioni ambientali”.

Dal punto di vista prettamente apistico, zootecnico, anche lavorando con sottospecie ben definite, come nel caso della Slovenia che impone l’allevamento solo della sottospecie autoctona Apis mellifera carnica, gli apicoltori tenderanno sempre a una selezione e a un miglioramento genetico. Come si inquadra questo in un’ottica di conservazione?
“E’ proprio questo che alcuni apicoltori non hanno ancora capito, ma sono fiducioso che appena supereranno la loro diffidenza ne saranno entusiasti.Operare in un areale dove solo la sottospecie autoctona è presente, permetteagli apicoltori di perseguire i propri fini di selezione. Ovviamente èimportante anche che ci siano apicoltori ‘amatori’ che non dipendono dalle loro api per il proprio reddito, che comprendano come allevare api rustiche,non selezionate, li rende partecipi di un complesso piano di conservazione, favorendo allo stesso tempo gli apicoltori professionisti. I professionistiinfatti hanno bisogno che qualcuno conservi per loro la variabilità geneticadella sottospecie che utilizzano per la loro apicoltura. C’è poi la speranza che concentrandoci sempre più sulle sottospecie autoctone, le api da miele allo stato naturale, quelle che vivevano ovunque prima dell’avvento dell’acaro parassita varroa, possano ricominciare a riconquistare gli ambienti naturali, con un grande contributo alla variabilità genetica”.

Le sottospecie di Apis mellifera, come tutte le sottospecie, sono frutto di una selezione naturale che le ha rese particolarmente adatte al loro areale. Ma su questo ci sono due aspetti importanti: i cambiamenti climatici e l’introduzione di nuovi parassiti. Non c’è solo l’ape che sta cambiando, ma anche l’ambiente in cui vive sta subendo veloci trasformazioni, non c’è il rischio che salti il rapporto favorevole tra sottospecie e territorio? E come si può affrontare?
“Questa idea deriva dal concetto di standard e di razza. La razza deverimanere immutabile e rispondente allo standard. Una sottospecie invece non è altro che una popolazione adatta a vivere in una determinata area geografica. Qualcuno ora potrebbe pensare che a questo punto stiamo parlando di un falso problema. Se introduco api carniche in areale dove è presente una sottospecie originaria diversa e sopravvivono va bene così. Il problema è invece che se dopo questa introduzione, anche massiccia, si smette di introdurre nuove regine, fuchi o colonie di ape carnica, dopo un certo tempo l’ape originaria avrà nuovamente il sopravvento, perché più adatta a quell’ambiente. Perché in Olanda, nella penisola Scandinava etc., ogni anno vengono comprate molte regine di api molto produttive ma originarie da altre aree geografiche? Perché le colonie con queste regine sono forse produttive durante la buona stagione, ma non sopravvivono all’inverno del Nord. Questo trasforma un pochino l’apicoltura nell’uso di alveari usa e getta”.

Nonostante tutte le minacce che gravano su Apis mellifera, ci sono dati come ad esempio la presenza di sciami ferali che resistono alle malattie, che fanno pensare che questa specie non sia a rischio estinzione. Si può dire che in qualche modo le api ce la possono fare, ma la cosa più a rischio è l’apicoltura, soprattutto nell’ottica di fare reddito con le api?
“Il problema è che il ruolo ecologico dell’ape da miele è tale che nonservirebbe una sua estinzione per mutare le condizioni ambientali e gliequilibri ecologici. Sta già bastando una sua drastica riduzione negli habitat naturali. La Carta di San Michele espone in diversi punti poi come la tutela delle sottospecie di Apis mellifera non sia solo una esigenza derivante dal ruolo ecologico che questi insetti hanno negli ambienti naturali, per cui una nuova ampia diffusione degli sciami ferali porrebbe rimedio. Ogni giorno nuovi dati scientifici dicono chiaramente che solo con api ben adattate al proprio territorio, sottospecie ed ecotipi quindi, si può ritornare ad unaelevata produttività e redditività economica per l’apicoltura”.

Dalla Carta emerge anche la necessità di una apicoltura meno intensiva, più legata al territorio, un aspetto che è stato anche alla base della presa di distanza da parte delle associazioni apistiche, soprattutto per quanto riguarda il nomadismo. E’ possibile pensare a due tipi di apicoltura, uno intensivo e uno più conservativo?
“Sinceramente non credo. Dipende poi cosa si intende per apicoltura intensiva. L’apicoltura ha una storia di almeno 5mila anni e si è semprebasata sulle caratteristiche biologiche delle api. Forse ci siamo un pochino allontanati da questa necessità, come l’agricoltura si è allontanata dall’importanza delle piante che coltiva e degli animali che alleva puntando invece su input che l’uomo mette artificialmente in gioco. Oggi c’è un grande interesse e ritorno all’uso di varietà antiche, di razze autoctone; i consumatori chiedono prodotti Doc, che parlino di naturalità, semplicità e genuinità.
La sostenibilità non è oggi una opzione ma un obiettivo e l’apicoltura non può non essere interessata da questo vento fresco e impetuoso. La Carta di San Michele all’Adige potrebbe anche essere letta come una base di partenzaper aggiornare l’apicoltura di domani. Senza stravolgimenti ma con una maggiore consapevolezza che l’ape da miele è anche un bene comune, e che quindi anche l’apicoltura lo è”.

Ma come è avvenuto lo strappo con le associazioni apistiche? C’è modo di ritrovare un punto di dialogo?
“Non credo proprio si possa e si debba parlare di strappo. La Carta di San Michele all’Adige, che ricordo è stata redatta dai maggiori studiosi italiani di api e apicoltura, assieme anche ad apicoltori professionisti ed è statasottoscritta da molte associazioni di apicoltori italiane, una trentina fino ad oggi (ma le adesioni continuano a giungere), è un documento scientifico enon tecnico né tantomeno politico. Quanto esposto nel documento è corredato da oltre cinquanta riferimenti bibliografici ed è in fase di pubblicazione, nella sua versione in lingua inglese, su una rivista scientifica di livello internazionale. Anche la scienza deve essere oggetto di discussione e di critica, ma su basi e con argomentazioni altrettanto scientifiche. I varicomunicati delle associazioni nazionali, Fai, Unaapi e Anai, non costituisconouno strappo tra mondo dell’apicoltura e comunità scientifica, ma il giustoadempimento a ruoli diversi. Se non si tiene conto di questo si potrebbe vedere uno strappo ancor più grave tra queste tre associazioni nazionali e il mondo dell’apicoltura locale.

Come mai le associazioni nazionali criticano pesantemente un documento condiviso, sottoscritto e sostenuto da molte associazioni sovraregionali, regionali e locali di apicoltori? Anche questo credo faccia parte di una dialettica che arricchisce la nostra società. Ora, il motivo per cui le tre associazioni nazionali stanno in certo qual modo osteggiando questo documento, che fa il punto sulla questione della biodiversità dell’ape mellifera e della sua tutela al fine di garantire la conservazione degli equilibri ambientali e allo stesso tempo di ridare prosperità economica al mondo dell’apicoltura, potrebbe derivare dal fatto che queste associazioni di produttori non sono state coinvolte nella stesura del documento. In questo caso ci sarebbe una confusione di ruoli e mandati. Ritengo infatti che la Carta di San Michele all’Adige, oltre che per il tema trattato, sia davvero straordinaria anche per la modalità con cui è stata scritta. I 28 estensori del documento hanno lavorato su una prima traccia, apportando correzioni, modifiche, arricchendola e limando anzi cesellando parola per parola. Io ho avuto il semplice ruolo di abbozzare la prima traccia e di riunire e mediare le correzioni. Ci sono voluti ben cinque mesi di intensissimo lavoro e di lunghissime telefonate, email, incontri. Ma alla fine ne è risultato un testo condiviso, solido e, mi lasci dire straordinario. Qualcuno l’ha definito lascatola dei sogni, io lo chiamo una visione unitaria, onesta e scientificamente molto ben documentata. Potremmo dire che questo documento costituisceuna sorta di analisi del sangue della questione. Ora tocca ad un consulto di medici, e qui ci devono stare assieme la comunità scientifica, la politica, il mondo dell’apicoltura e anche della tutela dell’ambiente, per vedere se e quali cure o ulteriori accertamenti servano. Quindi le polemiche non mipreoccupano e il dialogo non solo deve iniziare ma è già iniziato e icomunicati delle associazioni nazionali li leggo in questa ottica.

Quello che ha spinto e spingerà da oggi in avanti ognuno degli estensori della Carta di San Michele all’Adige e anche quanti l’hanno sottoscritta con consapevolezza ed entusiasmo, è l’amore per le api e per l’apicoltura. Ci muove la coscienza che l’ape ha un ruolo ecologico di primaria importanza e che l’apicoltura è un’arte straordinaria, unica forse nel panorama delle attività umane”.