Non per il miele ma per proteggere loro e noi: l’esperienza di un allevatore di api milanese trapiantato nel Salento

Otranto – Il primo contatto con quell’insetto giallo-nero lo ha avuto a San Benedetto del Tronto, dopo aver chiuso una precedente attività, per colpa di un amico. Poi, insieme al colpevole, hanno fatto un anno di esperienza presso un’azienda leccese. Infine, il grande (e fortunato) passo: l’avvio di una impresa propria, non per produrre miele, ma api.

“In Italia e in Europa la richiesta è in continua crescita – dice Luca Consigli, 39enne, da una decina di anni salentino convinto – e cresce perché i problemi ambientali, climatici, l’inquinamento pesano sulla loro vita”. Come pesa l’attacco costante di un acaro parassita, il Varroa, arrivato dall’Isola di Giava ed ormai diffuso in quasi tutto il mondo in forme endemiche. Quasi una Xylella, insomma, che colpisce la covata e gli insetti adulti succhiandosi la vita.

“Gli sciami selvatici vanno scomparendo se non c’è l’intervento umano a proteggerli. Il parassita le decima letteralmente e per farle vivere occorre ripulirle periodicamente”, aggiunge Consigli, oggi a capo dell’apicoltura La Fenice con sede a Lecce e diramazioni – societarie (tre aziende) e di collaboratori – in quasi tutto il Salento. “Col mio socio abbiamo fatto una precisa scelta etica, quasi una missione: farle nascere e farle vivere”. Anche perché, senza api, corre gravi rischi la stessa specie umana.

Consigli e il socio distribuiscono adesso pacchi d’api (ogni pacco conta 15mila insetti), sciami e api Regine Buckfast (una specie particolare) in tutta Europa; da poco hanno aperto una succursale in Francia. Sette gli occupati a tempi pieno, una cinquina gli stagionali  “tutti del posto e tutti preparati”; oltre ad un team specializzato in api regine. Per 2.500 colonie ubicate in 70 apiari sparsi “nelle zone più preservate quali i parchi salentini: da quello Otranto-Bosco di Tricase-Leuca a quello di Ugento, dall’area del parco di Gallipoli a Portoselvaggio di Nardò.

E sì, perché se con il Varroa bisogna convivere, occorre invece guardarsi attentamente dall’inquinamento galoppante. “Nel giro di otto anni abbiamo il 20% di api in meno. Le città sono diventate per le api meno pericoloso delle campagne – sottolinea Consigli – del resto lo dicono i dati: la Puglia ha le percentuali più alte in Italia per l’uso di erbicidi “. Il riferimento è ai trattamenti a base di glifosate e neonicotinoidi (di cui si è parlato per il trattamento anti insetto vettore della Xylella).

Le api sono le sentinelle e, per questo e per tradizione, le prime a soccombere in caso di assalti. E non vale, a difesa, il fatto che la Puglia fosse nota per il miele già in età greco-romana (timo e rosmarino le varietà) o che in alcuni toponomi ci sia il riferimento al prezioso alimento, si vedano Melissano e Melendugno, per esempio.

Forse anche per resistere con maggiori probabilità di riuscita, “la Fenice” ha creato una prima rete apistica di cui è capofila ed ha fatto una netta scelta di campo a favore della produzione estensiva di api. “Lavoriamo con alveari più piccoli, condividiamo il lavoro, le decisioni e il bilancio di fine anno. Prepariamo ragazzi di queste zone e puntiamo a lavorare in maniera stanziale”. L’età dell’oro per l’apicoltura pugliese, datata XVI-XVII secolo, magari potrebbe anche tornare tra agrumeti, macchia mediterranea e ciliegeti.

Non per il miele ma per proteggere loro e noi: l’esperienza di un allevatore di api milanese trapiantato nel Salento