La storia di Alessia: dal cinema all’apicoltura

di Marìca Spagnesi –

Alessia Balucanti ha 46 anni e un passato nel mondo del cinema. Sei anni fa, dopo un travaglio interiore durato a lungo, mette in crisi un modello di vita e di lavoro in cui non si riconosce più da tempo per andare incontro alla sua passione: le api. L’abbiamo intervistata.

Alessia Balucanti ha 46 anni e un passato nel mondo del cinema. Sei anni fa, dopo un travaglio interiore durato a lungo, mette in crisi un modello di vita e di lavoro in cui non si riconosce più da tempo per andare incontro alla sua passione: le api.

Da quel momento l’amore per questi insetti e la voglia di farne un lavoro vero e proprio la spingono ad approfondire tutte le tematiche relative al mondo degli alveari, alla produzione di un miele più naturale, libero dalla chimica e rispettoso in primo luogo delle api stesse. La scoperta più grande, però, è una nuova percezione del tempo e dello spazio, non più costretto e regolato dalla città o dai cartellini da timbrare ma che fluisce secondo le stagioni, le fioriture, il clima.

Gli alveari di Alessia, che fa la spola tra Roma e Montopoli Sabina (RI), si trovano anche in città, nel parco pubblico della Caffarella. Questo, da una parte sfata il mito che per essere apicoltori sia necessario possedere grandi appezzamenti di terra in campagna ma, allo stesso tempo, ci informa che non sempre il miele prodotto fuori città è migliore. L’uso indiscriminato di pesticidi sta, infatti, compromettendo sempre di più la qualità dei prodotti che consumiamo e la vita stessa delle api.

Quando hai scoperto la tua passione per l’apicoltura e da quando hai deciso di farne un lavoro?

«Una delle prime domande che ricevo quando mi presento come apicoltrice è se mio padre (e perché non mia madre?) facesse l’apicoltore. Sembra una decisione bizzarra quella di allevare api e appare ancor più strano che sia una donna a farlo. Soprattutto se questa donna ha avuto nei suoi primi 40 anni un percorso di vita ordinario e qualificato. E ancor più se tutto questo avviene in una grande città come Roma. In molti casi l’apicoltura è un mestiere di famiglia che si tramanda per generazioni: in altri casi, come nel mio, è un lavoro di cui improvvisamente ci si innamora, a tal punto da mettere in crisi il modello di vita precostituito fino ad abbandonarlo per abbracciare un nuovo stile di vita, un nuovo modo di vivere il tempo e lo spazio».

Che lavoro facevi prima e perché l’hai abbandonato?

«Mi sono ritrovata, molto giovane, nel mondo del cinema: ho cominciato in un posto “d’eccellenza”, il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (dove ho lavorato nella Direzione Generale, nel Settore Cine-Production e nella redazione del settore Editoria) e terminato in anni recenti in una nota azienda di prodotti cinematografici e teatrali di Milano, nella quale curavo la parte culturale e di comunicazione. In questi anni ho anche viaggiato moltissimo, in particolare in Africa – dove ho vissuto dei mesi, a fasi alterne – e poi in Oriente e Medio Oriente, nel Caucaso, in Sud America. Lunghi soggiorni di studio, di osservazione e di crescita interiore. Anno dopo anno è diventato prorompente il desiderio di rompere alcuni schemi, uscire da alcune gabbie, modificare ritmi di vita codificati e socialmente imposti. E nel frattempo è entrata nella mia vita l’apicoltura, quasi per caso: il desiderio di un ritorno alla natura, la necessità di ristabilire un concetto di tempo “biologico”, legato alle stagioni e alle condizioni meteo piuttosto che al timbro di un cartellino e, non ultima, la mia passione smisurata per il miele mi hanno spinta a frequentare un corso per approfondire le tematiche legate al mondo delle api e alle tecniche di allevamento e produzione. Fin da subito benessere, soddisfazione e pienezza di me hanno trovato nell’apicoltura la loro contemporanea realizzazione. Ho scoperto che una passione poteva anche diventare un lavoro, e che il lavoro non è solo “sofferenza e subordinazione”: forse nell’apicoltura ho trovato il naturale compimento del mio animo “sovversivo”. Dopo anni travagliati, vissuti nel rifiuto di un ambiente lavorativo che dagli anni ‘30 aveva rappresentato un faro di cultura per questo paese e che nel giro di un decennio era divenuto un luogo fatuo e moralmente degradato, governato da un sistema corrotto e nepotista, che ha visto la resa di teste pensanti, la disfatta dei contenuti, l’annichilimento generale, lo svilimento dell’individuo in un clima di cieca rassegnazione e di paura per la perdita di certezze economiche…ecco, a seguito di un travaglio che mi ha logorata per anni, ho realizzato che non avrei potuto continuare ad accettare tutto questo. Credo che ogni individuo sia parte fondante di un ingranaggio collettivo: il cambiamento viene da ognuno di noi. Quello non era il mondo che io volevo. Era piuttosto un microcosmo, l’emblema di un degrado più ampio: quello culturale, sociale ed ambientale».

Come sei riuscita a tenere i tuoi alveari a Roma, quindi in città, in un parco come La Caffarella?

«L’idea era quella di un contatto stretto con la natura, senza rinunciare agli stimoli offerti dalla città. Non avendo un terreno di proprietà né disponibilità economica sufficiente per acquistarne uno, ho pensato di usufruire di una consuetudine da sempre in uso nel mondo dell’apicoltura: la richiesta di un terreno in comodato d’uso gratuito in cambio di un “affitto” pagato in miele, che generalmente corrisponde a mezzo chilo di miele per ogni alveare in produzione. Inizialmente un po’ imbarazzata per la richiesta, ho cominciato a domandare in giro se qualcuno avesse disponibilità di una porzione di terreno: ho scoperto che ci sono un’infinità di campi incolti e in stato di abbandono; terre che magari hanno un proprietario, che facendo però un lavoro d’ufficio non sa cosa farsene e che può essere felice che un bene “morto” possa invece fruttargli un po’ di miele e garantirgli una “sorveglianza” settimanale. Ho scoperto che ci sono persone che amano le api e che cercano un apicoltore disponibile a mettere delle arnie presso di loro. La Valle della Caffarella, facente parte del più esteso Parco Regionale dell’Appia Antica, ospita in realtà moltissimi apicoltori, per iniziative sia pubbliche che private. Nel mio caso, io sono ospitata in terreni di privati. Devo anche aggiungere che le mie numerose richieste di asilo per gli alveari, inoltrate agli uffici pubblici dell’Ente Parco, non hanno mai avuto riscontro».

Da cosa è dipesa la scelta dei terreni?

«La scelta dei terreni è stata dettata prima di tutto da esigenze legate alle api: ho deciso di non posizionare alveari in zone agricole, nel timore dell’uso indiscriminato di pesticidi e antiparassitari vari. Gli avvelenamenti sono all’ordine del giorno, nonostante la legge vieti i trattamenti in fioritura. Oltretutto, alcuni studi hanno dimostrato che la presenza di residui chimici nella cera (e poi nel miele) è spesso inferiore negli alveari urbani, proprio per la distanza da zone di forte produzione agricola. Inoltre, pare che il regime di venti di una città come Roma consenta di “spazzare via” i metalli pesanti dovuti allo smog per scaricarli con le piogge sulle campagne o colline circostanti. Questo anche per sfatare qualche luogo comune che “il miele di città è inquinato”. In secondo luogo, ho provato a fare i conti con una piaga corrente: i furti di alveari, che avvengono spesso su commissione da parte di altri apicoltori. Ho quindi selezionato terreni dotati di impianti di videosorveglianza o di fidatissimi cani da pastore, oltreché di adeguata recinzione. Ciò detto, ho comunque alcuni alveari anche in zone extraurbane, in genere all’interno di zone votate al pascolo e non all’agricoltura».

E’ compatibile l’apicoltura con il rispetto delle api e delle loro esigenze? A quali principi ti ispiri?

«Naturalmente esistono svariate tecniche di allevamento e produzione: io mi limito a descrivere la mia personalissima gestione dell’alveare, nella quale ho scelto di allevare le api seguendo un criterio di sostenibilità. Ho preferito orientarmi su piccole produzioni (il concetto di “produzione intensiva”, in generale, non rientra nella mia idea di sostenibilità, per le api come per altri animali). Cerco di arrivare alla primavera con famiglie forti (il che vuol dire quantitativamente numerose e sane dal punto di vista sanitario): in sintesi faccio in modo che le api comincino a raccogliere miele fino a riempire il loro nido. Quando non hanno più spazio nel nido per depositare il miele, sovrappongo i melari, dove esse andranno a stoccare quel surplus che sarà il miele destinato alla produzione vera e propria. Alla fine della stagione (autunno) le api continueranno ad avere nel nido tutto il miele di cui hanno bisogno e con il quale potranno abbondantemente superare l’inverno».

Dunque, non nutri artificialmente le api?

«No. Per piccole produzioni come le mie non è necessario ricorrere ad alcuna nutrizione artificiale, che rappresenta un “non senso”: la nutrizione artificiale ha un costo non indifferente, sia in termini economici che in termini di tempo speso dall’apicoltore per andare a nutrire; anche le api pagano il costo della nutrizione artificiale, in termini di vita più breve e possibili patologie intestinali. Faccio inoltre notare che api nutrite con candito o sciroppo di zucchero non avranno più bisogno di uscire dall’alveare per prendere nettare dai fiori, e che il miele prodotto sarà tutto uguale sempre, sarà una sostanza semplicemente dolce ma senza il profumo e l’aroma dei diversi fiori che fanno la differenza tra decine di mieli e che caratterizzano l’infinita varietà: miele da fiori della costa, della campagna, della montagna, del bosco; miele da fiori primaverili, estivi, autunnali; miele di stagioni piovose oppure siccitose. Tuttavia il discorso della nutrizione meriterebbe un capitolo a parte: in caso di produzioni intensive e in epoca di evidenti cambiamenti climatici, la nutrizione artificiale può rappresentare una soluzione d’emergenza per sfamare gli alveari, soprattutto in alcune stagioni in cui condizioni meteorologiche avverse e prolungate metterebbero fortemente a rischio la sopravvivenza stessa delle famiglie».

Riguardo a pappa reale e propoli?

«Ho scelto di non produrre pappa reale: l’idea di un sacrificio costante di api regine per il prelievo di pochi grammi di prodotto per soddisfare il capriccio di un consumatore non rientra nei miei principi etici. Produco propoli, ma solo da raschiatura: cioè non utilizzo apposite reti di raccolta della propoli (che inducono le api a produrne in quantità elevata) ma raccolgo gli eccessi prodotti dalle api durante la stagione e quella che rimarrà su arnie e melari nei lavori invernali di pulizia dei materiali. Sto ancora valutando la possibilità di produrre polline: possiedo una sola trappola per il polline di “ultima generazione”, che consente alle api di passare tra i fori abbastanza agevolmente per raggiungere il nido e di “perdere” solo una parte del raccolto. Questo sistema risolverebbe anche gli inconvenienti delle trappole tradizionali (cioè potenziali danni alle zampette delle api). Ovviamente la trappola dev’essere usata con buon senso: a rotazione sugli alveari, solo per poche ore e nella stagione in cui non arrechi danno alla covata».

Come combatti la varroa?

«Ho scelto un’apicoltura biologica, cioè senza uso di prodotti chimici all’interno dell’alveare. La varroa è uno dei maggiori nemici delle api e la vera causa di morte delle famiglie: è un piccolo acaro che prolifera nella covata opercolata e che, attaccandosi al corpo dell’ape, ne succhia l’emolinfa causandone l’abbassamento delle difese immunitarie e rendendola così più esposta alle molteplici patologie, legate anche all’esposizione ai pesticidi. In attesa di nuovi studi sull’argomento, ho scelto di seguire in primavera un “trattamento tampone”, che consiste in un controllo biomeccanico della varroa, con monitoraggio e, se necessario,  eliminazione settimanale di parte della covata da fuco, nella quale la varroa ha ben tre cicli di riproduzione; è un intervento cruento, probabilmente non esattamente “etico”, ma è un’inevitabile alternativa all’uso della chimica. Per non usare la chimica, devo scegliere se sacrificare qualche maschio oppure non intervenire affatto, portando così al collasso l’intera famiglia in poche settimane. In estate (fine luglio) procedo con un ingabbiamento della regina per 24 giorni su telaio da nido (ciò serve a limitare la deposizione nel resto dell’alveare e a consentire lo sfarfallamento di tutta la covata). Una volta liberata la regina procedo con un gocciolamento di acido ossalico (sostanza naturalmente contenuta nel miele) diluito in acqua e zucchero: lo zucchero farà aderire l’ossalico al corpicino dell’ape che sentendo un leggero prurito comincerà a grattarsi (grooming) provocando il distacco delle varroe presenti sul corpo e tra i tergiti. Infine in inverno (novembre/dicembre) intervengo con una somministrazione ciclica di acido ossalico sublimato, una sorta di suffumigi che non rilasciano nell’alveare l’umidità del gocciolato ma sortiscono il medesimo risultato di pulizia».

Si riesce a vivere solo allevando api in modo etico?

«Un’apicoltura etica a mio avviso è possibile, immaginandola come il risultato di una collaborazione a tre: api, ambiente e apicoltore. L’idea è quella di lasciare alle api la possibilità di svilupparsi nel modo più naturale possibile, limitando al massimo le visite all’interno del nido e adottando una particolare cura nella gestione: tuttavia delle intromissioni sono comunque necessarie, perché l’apicoltore si fa anche garante della sopravvivenza stessa delle api. Senza gli interventi (convenzionali o biologici) dell’apicoltore sulla varroa le api ormai sarebbero ridotte a un pugno. Nello spirito di questa collaborazione, l’apicoltore si impegna ad assicurare alle api un ambiente adeguato e protetto, nel quale esse possano stoccare il nutrimento e sviluppare una covata sana. Tale benessere consentirà alle api di avere uno stress di produzione minore e quindi di “regalare” all’apicoltore quel “di più” che potrà essere vissuto come un compenso piuttosto che come un furto. Ribadisco il concetto che una famiglia numerosa, forte, sana, sarà in grado di fare un ottimo raccolto e di dividerlo con l’apicoltore il quale, al termine della stagione, garantirà alla famiglia un ambiente confortevole, ricco di nutrimento e igienicamente sano che consentirà alla famiglia di superare brillantemente l’inverno. Non sono ancora sicura che si possa vivere solo allevando api in modo il più possibile etico, ma sono sicura che in questo modo si possa sopravvivere. E altrettanto di sicuro non ci si può arricchire. Anche in questo caso il concetto di “reddito” dev’essere personalizzato. Per la mia esperienza personale ho imparato a non cedere alle lusinghe dei “bisogni indotti”, ho cercato di tirarmi fuori dal concetto di consumismo sfrenato che ha caratterizzato la mia generazione (e forse ancora di più quella dei miei genitori). Ho imparato a stabilire delle priorità e distinguere le cose realmente necessarie da quelle che non lo sono. Sto provando a sopravvivere con il piccolo reddito di un’apicoltura sostenibile (reddito che non sarà comunque inferiore a quello di uno stipendio medio di un lavoratore sfruttato in un call center per otto ore al giorno o più). D’altra parte sono convinta che non mi sarei arricchita nemmeno continuando a percepire uno stipendio da statale: la valutazione è che almeno ora dò un senso alle mie fatiche, mi sento in armonia con l’ambiente e collaboro con dei colleghi rispettosi e laboriosi, le mie api».

Che cosa possiamo imparare dalle api?

«Personalmente, dalle api ho imparato innanzitutto a liberarmi del nostro concetto razionale di tempo; nel loro mondo le mie regole non valgono più: il tempo è scandito dalle condizioni climatiche e ambientali, i sensi sono tutti catturati dall’osservazione della vita dell’alveare, dagli odori, dai colori, dai movimenti e dalle continue metamorfosi del “super-organismo” alveare. L’osservazione richiede pazienza, calma, attenzione e – appunto – tempo!».

Che cosa significa per te la parola “cambiamento”?

«Cambiamento è non avere paura di provare ad essere più felici. Cambiamento è abbandonare le (spesso false) certezze di una vita e accettare di sentirsi “diversi” rispetto alla massa, senza sensi di colpa legati alle proprie scelte anticonformiste. Cambiamento è riuscire ad ascoltare la voce dell’anima e provare ad assecondarla».

Che cosa consiglieresti a chi vuole cambiare vita e seguire la sua passione?

«A chi vuole cambiare vita consiglierei prima di tutto una grande introspezione, ascoltare la sua vocina interiore per capire cosa sta comunicando esattamente; mettere a fuoco il reale desiderio, l’esigenza. Assecondare questo periodo di gestazione con adeguati studi, con letture, con esperienze, per dare al sogno, una volta partorito, la necessaria concretezza. Qualunque esso sia. Credo che l’energia di una passione aiuti a superare le molte (e inevitabili) difficoltà».

Qual è il tuo prossimo step?

«Il prossimo step è diventare una brava apicoltrice. Perché, come diceva Gianni Rodari, “d’imparare non si finisce mai”. E poi mi piacerebbe portare a compimento questa passione con la divulgazione: trasmettere le mie conoscenze ad adulti e a bambini, per aumentarne la consapevolezza, per sfatare luoghi comuni, per dare il giusto valore ad un prodotto che contiene vita, ambiente, sacrificio. La cosa che trovo più avvilente è la superficialità negli acquisti e l’ignoranza nel campo alimentare. Siamo stati abituati alla grande distribuzione e ai prodotti in serie, nessuno si interroga più su come nasce un prodotto. Continuo a dire che siamo tutti individualmente responsabili di un ingranaggio collettivo: la mia scelta avrà avuto un senso quando sarò riuscita a trasmettere le mie modeste conoscenze ad altri individui, che a loro volta lo faranno con altri individui, costruendo una coscienza collettiva».

Attraverso quali canali distribuisci il miele delle tue api?

«Le mie sono piccole produzioni e ciò mi consente di avere spesso un contato diretto con il consumatore. Finora ho preferito, quando possibile, occuparmi io stessa della vendita, attraverso gruppi di acquisto collettivi (GAS urbani) o consegnando personalmente il miele a domicilio. Questo sistema mi consente di “dare un volto” al mio prodotto e mi dà l’opportunità di spiegarlo, di raccontarlo, di rispondere alle curiosità e ai dubbi. Il desiderio è trasmettere il valore del prodotto e fare in modo che il mio miele esca dagli alveari e finisca direttamente sulla tavola dei consumatori, limitando il più possibile gli intermediari. Con questo stesso spirito, ho scelto dei piccoli rivenditori con la mia stessa filosofia: piccoli esercizi a conduzione familiare che, a monte, hanno scelto di valorizzare prodotti italiani, di zona, di piccole aziende e senza intermediari».

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