Honeyland (2019). Un documentario intimo ed autentico, innamorato della natura, del suolo, e delle persone

di Tommaso Tocci –

Negli aspri ma straordinari paesaggi montuosi del nord della Macedonia, Hatidze Muratova vive tra i resti di un villaggio ormai abbandonato assieme alla madre Nazife, anziana, malata e con problemi di vista. Hatidze si prende cura di lei e delle sue coltivazioni di api, che accudisce da esperta e il cui miele porta poi fino a Skopje per venderlo al mercato cittadino. La vita spartana e tranquilla di Hatidze viene ravvivata da una famiglia di nuovi vicini, Hussein, moglie e sette figli. Preoccupato di come sbarcare il lunario, l’uomo si lascia ingolosire dai guadagni di Hatidze con la vendita di miele e decide di imitarla, mettendo però a rischio l’equilibrio dell’ecosistema locale.

“Metà per voi, metà per me”, così Hatidze rassicura le sue api prima di portarsi via il frutto del loro lavoro in un compromesso di cooperazione, equilibrio naturale ed economia della sopravvivenza.

Honeyland, il documentario candidato agli Oscar dei registi Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov, vive in un rapporto simile con il suo soggetto, fatto di osservazione neutrale ma anche del condensato astuto e appassionato di una parabola umana, cogliendo il momento giusto per rapirla sulla base di centinaia di ore di girato.

Inizialmente pensato come un’opera di interesse ambientale su un villaggio macedone, che ha richiesto tre anni di presenza e lavorazione, il film trova però la sua forza allegorica nel fortunoso sviluppo che mette Hatidze di fronte allo specchio morale dei nuovi vicini, “minaccia” ambientale, portatori di caos (le scene in cui i bambini interagiscono con gli animali e con l’ambiente in modo disordinato e gioioso sono tra le più riuscite) ma in fondo anche loro gente che cerca di darsi da fare come meglio può.

Questione di equilibrio dunque, come del resto tutto in Honeyland: una storia che parla di sostenibilità ambientale ma che mostra come, a tutti i livelli e soprattutto a quello umano, ogni azione sia anche un disturbo. Anche la semplice prossimità, di una donna a un nido d’api, di una famiglia a un’altra, di una madre a una figlia, altera uno stato naturale; Il lavoro di Kotevska e Stefanov, con i suoi ritmi lenti e la precisione delle inquadrature, stimola lo spettatore a riflettere sul proprio ruolo di osservatore attraverso la macchina da presa, e a chiedersi se e come stia sfruttando esso stesso il mondo rappresentato nel film.

A disinnescare i dubbi concettuali c’è però la verve terrena e autentica di un documentario che non pontifica e non astrae, e rimane invece innamorato del suolo e delle persone, fotografati entrambi con toni caldi e solari. Non per caso la protagonista veste una maglia gialla che diventa subito memorabile, tramite umano tra il sole e il miele, tra cielo e terra.

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