Dove va l’apicoltura urbana

di Matteo Giusti –

Abbiamo incontrato Guido Cortese, apicoltore professionale e tra gli organizzatori del Convegno nazionale sul tema, per fare il punto su come si sta evolvendo l’attività apistica fatta nei centri abitati e quali sono le sue prospettive e opportunità.

L’apicoltura urbana, l’arte di allevare le api nei centri abitati è una tendenza che sta prendendo sempre più piede in molte città del mondo, Italia compresa.

Una realtà raccontata anche in un libro, L’arnia sul balcone di AntonioBarletta, apicoltore urbano lui stesso e bravo divulgatore di questa esperienza, che già incontrammo lo scorso anno per farci presentare questa nuova, ma forse anche antica, tipologia di apicoltura.

Ma oggi dove sta andando l’apicoltura urbana in Italia? Quali sono le prospettive, i limiti e le opportunità?

Lo abbiamo chiesto a Guido Cortese, informatico, apicoltore professionale e tra gli organizzatori del Convegno nazionale di apicoltura urbana, insieme a Claudio Porrini dell’Università di Bologna, Sergio Angeli e RiccardoFavaro dell’Università di Bolzano, Salvatore Barone dell’Asl di Bolzano e a Paolo Faccioli e Andrea Lilli.

Convegno che si è tenuto la prima volta a fine 2017 nella Libera Università di Bolzano e presso l’Istituto salesiano Rainerum, dove, sul tetto, è visibile un apiario urbano che viene utilizzato da apicoltori, studenti e ricercatori. Un apiario che è stato intitolato con un verso del poeta W.B.Yeats ‘Una terribile bellezza è nata’.

Quanti sono oggi gli apicoltori urbani in Italia, e quanti alveari allevano?
“L’Italia ha sempre avuto esperienze di apicoltura urbana sin dalprimo Novecento a Torino, inizialmente per sperimentare ed insegnare la tecnica. A partire dagli anni ’80, l’Università di Torino ha condotto delle importanti ricerche legate alla misura della qualità dell’ambiente introducendo così una funzione importante tra le tante che oggi rientrano nel campo di applicazione dell’apicoltura urbana.
Se escludiamo gli apicoltori professionisti che allevano le api solo per fini produttivi anch’essi presenti nelle aree urbane possiamo dire che gliapicoltori urbani in Italia sono più di 100 e si stima un volume totale di circamille alveari ma potrebbe essere maggiore. Sono studenti, amatori, ricercatori, docenti, produttori, educatori, attivisti e pensionati”.

Quali sono le città in cui ci sono più api?
“Le città con più api sono Torino con più di 200 alveari e Milano con più di 100 alveari, seguono Bologna, Bolzano, Alessandria, Cremona, Roma, Potenza, Reggio Emilia, Palermo, Bergamo, Cesena, Segrate, Latina, Collegno, Veneria, Barletta, Urbino e tante altre ancora. Ad esse vanno aggiunti gli alveari che alcuni produttori portano in città per scopi produttivi o per sfruttare temperature più miti e fioriture importanti anche durante le stagioni più difficili. Per esempio la Collina di Torino fino al fiume Po e al Parco del Po, da poco inseriti nel Mab – uomo e biosfera – dell’Unesco, ospitano qualche centinaio di alveari”.

L’apicoltura urbana attualmente è un’attività puramente hobbistica o ci sono apicoltori urbani che producono per fare reddito, magari avendo anche altrui alveari in campagna?
“Alcuni hanno iniziato da subito a sperimentare apicoltura in città, altri hanno iniziato con attività produttive e successivamente hanno scelto l’apicoltura urbana per raggiungere finalità diverse: fare educazioneambientale nelle scuole, educazione alimentare, arte, avvicinamento a soggetti svantaggiati come malati psichici, portatori di handicap o carcerati,rigenerazione urbana, inclusione sociale mediante l’insegnamento dell’apicoltura alle vittime del caporalato e ai rifugiati politici, valorizzazionedella filiera corta e dell’identità dei quartieri attraverso la promozione di un cibo di prossimità, rigenerazione paesaggistica, funzione di impollinazionenelle aree periurbane o recentemente annesse nelle aree di espansione demografica a seconda dei piani regolatori, branding aziendale, riqualificazione delle aree verdi pubbliche e private che possono dunque fornire un pascolo adeguato anche alle specie selvatiche di insetti e hotel per impollinatori.

Ciò che soprattutto accomuna tutte queste esperienze è la possibilità diguadagnare dei momenti individuali in cui l’apicoltore stesso o il cittadino possono apprezzare un rapporto quasi paritario con l’animale, semplicemente assaporando la vista delle api. L’aspetto della convivialità interspecifica sottolinea maggiormente il rispetto nei confronti delle api evidenziando una maggiore sensibilità verso il benessere dell’animale.
La produzione è un elemento interessante quando contribuisce a mantenere vivi questi progetti rendendoli sostenibili ma anche replicabili.
Rimane pur sempre il fatto che per poter produrre il miele per autoconsumo è sufficiente possedere e allevare degli alveari; invece per poterlo vendere o somministrare nelle attività pubbliche o nelle scuole o nelle botteghe dei quartieri bisogna essere a tutti gli effetti degli agricoltori con una licenza e un’adeguata formazione tecnica anche per quanto riguarda le normative sull’igiene”.

In alcuni paesi del Nord Europa l’ambiente urbano, soprattutto delle grandi metropoli come Londra e Parigi sembra più favorevole per le api, per una maggior disponibilità di fiori in vari periodi dell’anno e minor inquinamento da insetticidi per uso agricolo. E’ vero anche per l’Italia?
“E’ assolutamente difficile distinguere la quantità e la qualità della produzione tra Italia ed estero in funzione della disponibilità del verde urbano. Nell’esempio di Torino il patrimonio arboreo comprende circa 60mila piante nelle alberate urbane, 100mila in parchi e giardini, e oltre50mila alberi nei boschi collinari, rappresentati da oltre 70 specie, tra cui prevalgono 15mila esemplari di platano (Platanus acerifolia), 10mila di tiglio (Tilia), 5mila di bagolaro (Celtis australis), 5mila di acero riccio (Acer platanoides), 4mila di ippocastano (Aesculus hippocastanum) e sono comunque molte le piante, arboree e arbustive, e anche erbacee, che possono fornire raccolti di nettare e di polline alle api tra cui dominano rovo, ailanto nella sola collina torinese.

Si può dire invece che la presenza così abbondante di api nelle grandi città del mondo dimostra in maniera assoluta un’altrettanta abbondanza di pascolo. A Londra nel 2013 è stato ufficialmente dichiarato – quasi in tono allarmistico – di aver superato i 3.500 alveari. Questo dato ha generato una riflessione importante evidenziando la necessità di disporre di un adeguato verde urbano. Da qui è nata l’idea di proporre la possibilità di diventare apicoltori urbani senza allevare le api, ma contribuendo alla realizzazione di giardini per impollinatori”.

L’inquinamento atmosferico e idrico delle città influisce sulla salute degli alveari e sulla qualità dei prodotti?
“Dalle pubblicazioni e recenti tesi universitarie è emerso che le api possonofornire informazioni complesse sulla qualità dell’ambiente in cui vivono: sono state definite bioindicatori ambientali. Nonostante dalle misure effettuate sia emerso di volta in volta che i mieli fossero edibili e non avessero mai soglie di particelle inquinanti superiori ai limiti consentiti, va anche evidenziato che il consumo umano giornaliero di miele è decisamente inferiore a quello di latte, uova, carne, frutta e ortaggi, i quali possono contenere percentuali decisamente più elevate non solo di inquinanti ma anche di tutte le sostanze utilizzate per l’agricoltura intensiva.

Bisogna comunque distinguere che il miele deriva da una trasformazione e deumidificazione da parte delle api del nettare raccolto sui fiori rispetto al polline o alla cera in cui le api vivono. Nel primo caso non c’è un tempo sufficientemente lungo per un accumulo importante di inquinanti, cosa che invece può avvenire nel polline, ma soprattutto nella cera poiché rappresenta lo scheletro della colonia di api ed è sottoposto perennemente all’esposizione con l’aria. Per questa ragione è molto importante sostituire la cera dell’ambiente in cui vivono le api anche per garantire loro una migliore qualità di vita”.

E gli abitanti delle città che rapporto hanno con le api loro concittadine e con i loro apicoltori?
“Il tempo ha sempre favorito il rapporto di complicità tra le api e cittadini. Alcuni alveari sono dislocati in aree private ma sempre più i comuni chiedono ai cittadini di promuovere delle attività che utilizzano l’apicoltura. E’ successo prima all’estero ma sta accadendo anche in Italia. In alcune scuole elementari di Copenaghen i bambini imparano felicemente a vivere con le api per poi dedicarsi alla robotica e alle arti più moderne. Questa commistione tra informatica e modernità da una parte e un riavvicinamentoalla natura sta esplodendo ovunque perché tutti – e non solo i bambini – abbiamo bisogno di vivere una dimensione più naturale in aree metropolitane sempre più antropizzate”.

E gli apicoltori come urbani come si trovano ad affrontare alcuni aspetti che possono essere problematici, come la logistica, il rispetto delle distanze di legge degli alveari dalle altre proprietà, le eventuali lamentele dei vicini?
“Il rapporto tra gli apicoltori e la città è fatto spesso di compromessi ma anche di sfide. Un esempio è l’installazione di arnie didattiche nell’Orto botanico di Torino avvenuto nel 2008 grazie ad un accordo con la città, che ha permesso di avviare dei preziosi momenti di scambio con la cittadinanza e di piccoli corsi pratici di apicoltura. Un altro esempio virtuoso è la città diPotenza che ospiterà il prossimo Convegno nazionale del 2018, che con lo sforzo di Legambiente e della cittadinanza attiva ha prima bonificato un’area urbana fortemente compromessa e successivamente sono stati installati orti urbani e alveari. Va ricordata Segrate che ha modificato il regolamento di polizia urbana per abbracciare l’apicoltura urbana.

Da pochi anni è nato un progetto internazionale partito dall’Umbria che permette di condurre le città virtuose su un percorso di dieci azioni mirate alla tutela dell’ambiente. Tra queste il non usare diserbanti e arredare la città con piante mellifere, per permettere al comune di ricevere il titolo di ‘Comune amico delle api’. Sono tante le città che hanno già concluso questo percorso.

Durante il convegno di Bolzano abbiamo ribadito definitivamente che l’apicoltura urbana non è semplicemente mettere le arnie sul balcone per produrre il miele, ma è ben altro. Più questo messaggio viene concretizzato attraverso azioni mirate a valorizzare il bene comune, più ci siamo accorti che la cittadinanza è disposta ad accettare l’apicoltura urbana e persino a condividerla.
Sono ormai rari i casi di lamentele, ma riguardano unicamente episodi in cui dei veri professionisti decidono di posizionare un’enorme quantità di alveari vicino alle abitazioni. Ma questa non è apicoltura urbana. È semplicemente apicoltura e come tale deve rispettare tutte le normative ma soprattutto il buon senso, senza mai pregiudicare la sicurezza dei cittadini.
È assolutamente importante iniziare questo percorso con responsabilità e un’adeguata formazione tecnica”.

Quali sono le prospettive per l’apicoltura in città oggi nel nostro paese?
“L’apicoltura urbana deve essere vista sempre più come la chiave per metterein contatto due mondi apparentemente lontani. Attraverso un codice di vita sociale così esemplare si passa dall’educazione civica e a quella ambientaleper arrivare a modellare dei veri e propri percorsi di rigenerazione urbana. È questo il messaggio avanguardista di una tesi universitaria recentemente prodotta alla Facoltà di Architettura e design industriale del Politecnico di Torino, che evidenzia la capacità di costruire dei ponti reali o virtuali nei vari livelli del tessuto urbano. Proprio oggi in cui i semi e di conseguenza il cibo locale sono minacciati da un’omologazione globale, anche il miele può restituire identità valorizzando la produzione del cibo locale e dignità riconoscendo in quel valore economico il lavoro che è stato compiuto. La resilienza della nostra produzione autentica può nascere anche da questo. Perché il miele è la carta d’identità dell’ambiente in cui è stato raccolto.

Abbiamo fatto un esperimento. Abbiamo fatto assaggiare un vasetto di miele ad una biologa, tra le maggiori esperte di analisi sensoriale del miele in Italia. E lei, grazie anche ad esami specifici, lo ha così descritto:
‘Lo spettro pollinico corrisponde a quello di un miele multiflorale in cui la componente principale è rappresentata da rovo o lampone. Sono presenti anche: non ti scordar di me, pomacee, ligustro, tiglio, composite del gruppo del tarassaco e della cicoria, ramnacee, agazzino, agrifoglio, albero delle farfalle, altre boraginacee, altre liliacee o iridacee, altre ranuncolacee, biancospino, campanulacee, capraggine, crocifere, drupacee del gruppo del ciliegio, fava, ombrellifere del gruppo del panace, ombrellifere del gruppo della carota, ranno, salice, spino di Giuda, trifoglio bianco, castagno, eucalipto estivo. Sono presenti anche pollini di piante prive di nettare: altre graminacee, altre specie non nettarifere, celidonia, olmaria, sambuco’.
Lo ha poi assaggiato. All’esame organolettico esclamò: ‘è curioso, al naso l’avrei detto un miele di alta montagna alpina, con quelle note che di solito attribuisco al lampone. In bocca invece è molto insolito, con una nota cosmetica che non so attribuire a niente’.
Alla biologa era stato fatto assaggiare un miele urbano del quartiere di Harrow, della Greather London!

Questo magnifico esperimento racconta quel che possiamo difficilmente immaginare, pensando che le api possono raccontarci una biodiversità vera. Anche per questo l’apicoltura urbana ha iniziato a diventare virale e contagiosa.
Ecco perché ‘una terribile bellezza.. è nata!’.

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