Importazioni raddoppiate negli ultimi 10 anni: primo fornitore l’Ungheria, poi la Cina. Tra le cause del crollo anche gli inverni troppo miti.
Superata in parte l’emergenza pesticidi, considerati i responsabili della terribile moria delle api registrata negli ultimi anni in Europa, lo sconvolgimento del clima sta mettendo nuovamente in ginocchio l’apicoltura italiana.
Il 2019 è stato per la filiera nazionale del miele una delle peggiori annate di sempre, e anche il 2020 a causa dell’inverno insolitamente caldo non promette bene.
Lo scorso anno c’è stato un vero e proprio tracollo con la produzione nazionale falcidiata dai cambiamenti climatici e un livello di importazioni ancora ai massimi storici, seppure in calo dopo il record raggiunto nel 2018. La produzione comunque si è più che dimezzata: rispetto alle oltre 23mila tonnellate del 2018 il crollo è stimato tra il 50 e il 70%, con punte dell’85% in Toscana, seconda regione per capacità produttiva dopo il Piemonte.
A livello nazionale gli operatori sono circa 60mila (1,5 milioni gli alveari censiti), solo per un terzo professionali, con il 50% delle colonie in capo a 1.800 apicoltori (il 3% del totale) di grandi dimensioni. Nonostante una costante crescita delle aziende negli ultimi anni (+6% le imprese e +9% gli addetti nel 2019), le importazioni negli ultimi dieci anni sono raddoppiate e hanno raggiunto nel 2018 il record di 27.900 tonnellate, secondo i dati Istat.
«Lo scorso anno si è quasi azzerata la produzione di acacia, che si fa soprattutto al Nord – spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti – mentre l’import è praticamente raddoppiato sostituendo la produzione nazionale. Quest’anno lo stato di salute delle colonie sembra essere buono ma il caldo complica la lotta alla varroa (il principale parassita che colpisce le api). Inoltre, il fatto di avere temperature elevate è un rischio perché l’anticipo della fioritura potrebbe essere seguita da gelate e provocare anche la perdita di api, oltre a complicare la percezione dell’andamento stagionale, come avvenuto lo scorso anno quando le api sono uscite più tardi».
Il miele non è solo un prodotto agricolo (o meglio zootecnico), un alimento dolce e salutare di cui solo in Italia esistono oltre 50 varietà, ma è anche – e forse oggi soprattutto – cartina di tornasole dello stato di salute dell’ambiente. Le api sono i principali impollinatori e senza di loro praticamente non esisterebbe l’agricoltura.
La lista delle coltivazioni che dipendono, a vari livelli, dagli impollinatori è molto lunga. A gennaio la Commissione europea ha vietato un nuovo fitofarmaco, il Thiacloprid commercializzato da Bayer. È il quarto “neonicotinoide” (i concianti chimici usati per il trattamento delle sementi) sui 5 autorizzati nell’Unione europea, a essere soggetto a restrizioni dal 2013, anno dell’esplosione delle accuse sulla scomparsa della api in Europa.
Molte di queste restrizioni sono state poi superate da “esenzioni per emergenza” che molti Stati membri hanno notificato a Bruxelles per continuare a consentirne l’uso sul proprio territorio.
«Ma il vero problema – spiega ancora Bazzana – è che non ci sono restrizioni sui paesi dai quali importiamo. La Ue vieta alcune molecole sul suo territorio ma non vieta l’import; resta quindi il problema del processo autorizzativo delle molecole. Manca poi l’etichettatura dei trasformati: abbiamo l’etichetta del miele in vasetto ma non quella dei prodotti che lo contengono, in cui spesso il miele viene utilizzato come ingrediente di richiamo».
In Italia arrivano in prevalenza mieli ungheresi, che mantengono la leadership tra quelli di importazione, mentre la Cina si sta facendo largo tra i fornitori vendendo produzioni di scarsa qualità a prezzi ultra competitivi.
Lo scorso anno, con quasi 2.400 tonnellate nei primi dieci mesi 2019, la Cina è salita al secondo posto nella lista dei fornitori, superando sia l’Argentina che la Romania, forte di un prezzo medio d’ingresso di 1,24 euro al chilo, contro i 3 euro abbondanti dei mieli ungheresi e rumeni e i 2,15 euro del prodotto argentino.
«Il sospetto – conclude Bazzana – è anche sulle triangolazioni con paesi che fungono da copertura di altre provenienze. Ci sono paesi che non sono mai stati grandi produttori che improvvisamente hanno cominciato a esportare miele».