La Coldiretti a settembre ha avvisato che nel 2019 il calo è stato del 41% a causa delle condizioni di salute sempre più precarie degli sciami. Contestualmente l’Efsa ha richiesto una seconda consultazione agli stakeholder per valutare l’effetto dei diserbanti . Dal numero 3 del magazine Animal Health.
Se le api scomparissero dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita”. Se già Albert Einstein aveva avvisato il mondo riguardo l’importanza di questo insetto, allora il problema della sua scomparsa (o drastica riduzione del numero) è un problema antico. Eppure ce ne stiamo accorgendo solo di recente della minaccia che l’inquinamento atmosferico rappresenta per la sua esistenza. L’importanza dell’ape nell’ecosistema naturale e, per quanto riguarda l’uomo, in quello economico è altrettanto noto. L’impollinazione e la produzione di miele sono due delle attività che hanno avvicinato la specie “apis” all’ “homo” in un vincolo di reciproco interesse. Ma come detto la sopravvivenza di intere colonie di api è messa a rischio a causa dei cambiamenti climatici e dell’antropizzazione forzata e incontrollata dell’ambiente. L’utilizzo di diserbanti, ad esempio, è stato messo sotto la lente di ingrandimento degli enti regolatori che in più di un’occasione si sono mossi per regolamentarne i livelli tollerati in agricoltura. In Italia, poi, il tema è particolarmente sentito dato che, secondo la Coldiretti, nel 2019 la produzione di miele si è letteralmente dimezzata rispetto ai dodici mesi precedenti.
L’apicoltura in calo
Coldiretti, a inizio settembre scorso, ha elaborato i dati Istat e ha comunicato che in Italia nel 2019 la raccolta di miele si è dimezzata. Il motivo, secondo l’associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, è dovuto ai cambiamenti climatici (alluvioni, trombe d’aria, temporali improvvisi, ondate di caldo eccessivo). “L’annata 2019 – continua la Coldiretti – sta prospettandosi per l’intera apicoltura nazionale come la più critica e problematica di sempre a causa dell’andamento climatico anomalo”. Il calo della produttività del 41% produrrà, secondo le previsioni, quantità di miele molto al di sotto dei 23 milioni di chili del 2018. L’Ismea, l’istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare, prevede una perdita di oltre 70 milioni di euro solo per i derivati dell’acacia e degli agrumi. Per dare qualche numero sulle dimensioni di questo mercato, esistono più di 50 varietà di miele con un totale di 1,4 milioni di alveari curati da 51.500 apicoltori. Di questi, 33.800 producono per autoconsumo (65%) e il resto per la libera vendita (35%).
L’impatto della riduzione delle api
Secondo i dati citati dall’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale “più del 40% delle specie di invertebrati, in particolare api e farfalle, che garantiscono l’impollinazione, rischia di scomparire. In particolare in Europa il 9,2% delle specie di api europee – si legge sul sito – è attualmente minacciato di estinzione (Unione internazionale per la conservazione della natura, 2015). Senza di esse molte specie di piante si estinguerebbero e gli attuali livelli di produttività potrebbero essere mantenuti solamente ad altissimi costi attraverso l’impollinazione artificiale. Le api domestiche e selvatiche sono responsabili di circa il 70% dell’impollinazione di tutte le specie vegetali viventi sul pianeta e garantiscono circa il 35% della produzione globale di cibo”. Il discorso poi verte inevitabilmente sull’impatto che ciò avrebbe sull’uomo. Sempre citando le fonti dell’Istituto “negli ultimi 50 anni la produzione agricola ha avuto un incremento di circa il 30% grazie al contributo diretto degli insetti impollinatori. È stato dimostrato che il 70% delle 115 colture agrarie di rilevanza mondiale beneficiano dell’impollinazione animale (Klein et al., 2007). Inoltre l’incremento del valore monetario annuo mondiale delle produzioni agricole ammonta a circa 260 miliardi di euro (Lautenbach, 2012). In Europa la produzione di circa l’80% delle 264 specie coltivate dipende dall’attività degli insetti impollinatori (Efsa, 2009)”.
La produzione di miele in Italia
Secondo gli ultimi dati dell’Anagrafe nazionale zootecnica di giugno 2019, il grosso delle imprese si trovano soprattutto al nord. A trainare è il Veneto con oltre seimila attività (6.757), seguito da Lombardia con 6.588 società e il Piemonte con 6.162. Bene anche la Toscana, l’Emilia Romagna e la provincia autonoma di Bolzano. Per quanto riguarda il numero di apiari (il luogo dove vengono collocate le arnie), in testa c’è il Piemonte (20.781) che stacca di parecchio la seconda in classifica, ossia la Lombardia, ferma a quota 14.889. La situazione rimane sostanzialmente la medesima per il numero di alveari con il primato del Piemonte (209.894).
L’Europa e il resto del mondo
Il Bel Paese è quarto nell’Ue per numero di alveari per la produzione domestica di miele con un totale di 1,5 milioni di arnie. Al primo posto, secondo le cifre fornite dalla Commissione europea lo scorso anno, c’è la Spagna (2,9 milioni), seguita da Romania (1,8 milioni) e dalla Polonia (1,6 milioni). Nel computo totale, l’Ue produce 230 mila tonnellate di miele all’anno con 17,5 milioni alveari a disposizione e 650 mila operatori. Un’autosufficienza del 60% circa. Il restante arriva da realtà extracomunitarie, soprattutto dalla Cina con quasi il 40% del mercato delle esportazioni e dall’Ucraina (20%). Tra l’altro, la tendenza degli ultimi tre anni considerati dall’Eurostat Comext, ha fatto registrare un lieve calo dei prezzi di importazione. Dai 2,52 euro al chilo del 2015 si è arrivati ai 2,17 del 2018 dopo un trend positivo che ha portato dall’1,69 del 2008 ai 2,14 del 2014. Continuità col segno più per il valore medio al chilo per i prodotti esportati. Con lievi oscillazioni, dal 2008 si è passati dai 3,92 euro ai 5,64 del 2018. Nell’ultimo decennio la produzione mondiale è cresciuta di oltre il 20% per un totale degli ultimi anni di 1,86 milioni di tonnellate annue. A guidare il mercato è l’Asia, con la Cina in testa, davanti a Europa e Nord America.
Le due indagini dell’Efsa
Ma non c’è solo la minaccia del clima che cambia. Anche l’utilizzo di prodotti chimici mette alle strette le popolazioni di api. A tal proposito, l’autorità per la sicurezza alimentare dell’Ue a settembre ha aperto una seconda consultazione pubblica (dopo quella di luglio 2019) per commentare il protocollo scientifico che l’ente utilizzerà per raccogliere e valutare i dati sulla mortalità delle api. La necessità di disporre di dati aggiornati sulla mortalità delle api – tenuto conto di una gestione realistica dell’apicoltura e della naturale mortalità di fondo – era stata sottolineata dalla Commissione europea al momento di chiedere all’Efsa di rivedere le linee guida. Il gruppo consultivo di stakeholder che è stato in-dividuato ha già formulato osservazioni sugli orientamenti attuali, pubblicati nel 2013. Anche gli esperti di pesticidi negli Stati membri dell’Ue sono stati consultati sul documento attuale.
L’altra consultazione sui pesticidi
Il tema dei diserbanti è delicato. L’Efsa ha dedicato alla questione una consultazione parallela avviata anch’essa a settembre, seppur, stavolta, sull’impatto sull’uomo. Le parti interessate potevano presentare i commenti fino al 15 novembre su due valutazioni: una esamina gli effetti cronici sul sistema tiroideo e l’altra gli effetti acuti sul sistema nervoso. Attenzione, però. Perché nei documenti ufficiali europei si parla di concentrazioni di sostanze possibilmente tossiche, quindi non si fa riferimento diretto all’uso in quanto tale, quanto all’abuso e ai livelli di sostanze potenzialmente cancerogene che si vanno ad accumulare. Proprio l’accumulo di queste sostanze è alla base delle valutazioni dell’agenzia per valutare quanto questi influiscano sulla mortalità delle api.
Lo studio dell’Izs delle Venezie
La richiesta all’Efsa della Commissione europea di rivedere le proprie linee guida è di marzo 2019. L’anno prima sul Journal of apicultural research è stato pubblicato uno studio a opera dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie che ha rilevato la presenza, in campioni di api morte, di residui di pesticidi e di alcuni virus delle api. Lo studio è stato effettuato su 94 campioni, provenienti dal Nord-est dell’Italia e raccolti durante la primavera 2014, prendendo in considerazione 150 principi attivi e 3 virus delle api. I ricercatori hanno riscontrato la presenza di almeno un principio attivo nel 72,2% dei campioni (api morte). Gli insetticidi sono i più abbondanti (59,4%), principalmente quelli appartenenti alla classe dei neonicotinoidi (41,8%), seguiti da fungicidi (40,6%) e acaricidi (24,1).
Gli insetticidi più frequentemente rilevati sono rappresentati da imidacloprid, chlorpyrifos, tau-fluvalinate e cyprodinil. Ci sono poi le infezioni virali. La prevalenza spetta al virus della paralisi cronica (Cbpv) e al virus delle ali deformi (Dwv). Il 71% e il 37% dei campioni sono risultati positivi rispettivamente a Cbpv e Dwv. “La presenza di una possibile relazione tra la mortalità primaverile delle api e l’impiego di trattamenti antiparassitari in agricoltura potrebbe contribuire a comprendere meglio fenomeni complessi come la moria delle api e lo spopolamento degli alveari, che negli ultimi dieci anni hanno colpito questo settore”, scrivono sul sito dell’Izs delle Venezie.