Il presidente della Fem Segrè risponde alle associazioni degli apicoltori che avevano criticato l’iniziativa di San Michele.
La promulgazione alla Fondazione Mach della Carta per la tutela delle api mellifere da parte della comunità scientifica nazionale (alla stesura hanno partecipato ben 12 università italiane più altre istituzioni sia pubbliche che private) ha l’obiettivo di porre un freno al declino delle api. Qualche dato: nel 2017 l’Italia ha acquistato all’estero 23 milioni di chili di miele, prevalentemente da Cina e Ungheria, mentre in soli 3 anni la produzione di uno dei mieli più delicati, ossia quello di acacia, è scesa da 705 mila chili del 2015 ai 198 mila del 2017. Ma non solo: è stimato in tre miliardi il valore delle coltivazioni impollinate e fecondate dalle api.
Al presidente della Fem Andrea Segrè, che ha sostenuto il lavoro di stesura coordinato dagli apidologi di San Michele all’Adige, abbiamo posto alcune domande anche a seguito delle polemiche avviate dalle tre associazioni nazionali degli apicoltori: Fai, Unaapi e Anai.
Innanzitutto presidente quali gli obiettivi della Carta di San Michele?
Il documento vuole offrire una visione scientifica unanime su uno dei problemi che minaccia le api e l’apicoltura (e quindi anche l’ambiente e l’agricoltura): il depauperamento genetico delle popolazioni locali di Apis mellifera. L’ape da miele, infatti, anche quando è gestita dall’apicoltura, resta un animale selvatico, chiave di volta dei nostri habitat. Questo non sminuisce affatto l’apicoltura.
Quale il rapporto fra biodiversità oggi messa rischio e apicoltura?
Le api locali sono una delle più importanti risorse per la salvaguardia degli equilibri ecologici e per garantire gran parte delle produzioni agricole. Non solo. Sono garanzia di sopravvivenza dell’apicoltura stessa, anche professionistica. Gli studi, infatti, dimostrano che api ben adattate all’ambiente sono più produttive e meno soggette a malattie e parassiti.
Non tutti hanno apprezzato questo enorme sforzo fatto da Fem, nel riunire tutti i maggiori esperti scientifici a livello nazionale. Le tre associazioni apistiche nazionali invitate alla firma non solo non hanno partecipato, ma hanno contestato la Carta nel metodo e nel merito.
Questo è un ottimo documento per i suoi contenuti ma anche per come è stato elaborato, visto che è l’espressione di un’intera comunità scientifica – gli estensori sono 28 – che si è messa in gioco durante 5 mesi di duro lavoro collegiale.
Cominciamo dal metodo, le associanti nazionali contestano di “non essere state coinvolte”, cosa risponde?
Dobbiamo distinguere bene i ruoli. Il documento è scientifico e quindi era corretto dibatterlo a livello scientifico. La Carta, di fatto, non entra nel merito di proposte concrete, che verranno valutate, in condivisione con il mondo dell’apicoltura, dai decisori politici.
E per quanto riguarda il merito quali sono le critiche principali e cosa risponde?
Credo ci sia un timore ingiustificato sulla questione del nomadismo. Questa pratica è fondamentale per rendere l’apicoltura produttiva, solo che su larga scala è causa di problemi genetici. Delineare il problema è il primo passo per individuare le soluzioni. Per questo era fondamentale che venisse elaborata in modo autonomo dalla comunità scientifica, non per sminuire gli altri interlocutori, bensì per offrire loro un servizio migliore.
Presidente Segrè, pensa sia recuperabile il rapporto con queste realtà dei produttori e se sì a quali condizioni?
Di fatto non c’è stata nessuna rottura, solo una lecita presa di posizione. Serve però un po’ di fair play, perché il documento è stato redatto dagli stessi esperti ai quali il mondo dell’apicoltura nazionale ha sempre fatto riferimento. Sono convinto che, proprio a partire dalla Carta, si arriverà a soluzioni condivise e realizzabili.